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Alighieri, Dante
Convivio

II

Nel principio della impresa esposizione, per meglio dare a intendere la sentenza della proposta canzone, convienesi quella partire prima in due parti: ché nella prima parte pr+oemialmente, si parla; nella seconda si séguita lo trattato; e comincia la seconda parte nel cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale imperò che gentilezza volse. La prima parte ancora in tre membra si può comprendere: nel primo si dice perché dallo parlare usato mi parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può, cioè alla veritade. Lo secondo membro comincia: E poi che tempo mi par d'aspettare. Lo terzo comincia: E cominciando, chiamo quel signore. Dico adunque che a me conviene lasciare le dolci rime d'amore le quali sogliono cercare li miei pensieri; e la cagione assegno, perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare d'amore, ma però che nella donna mia nuovi sembianti sono appariti, li quali m'hanno tolta materia di dire al presente d'amore. Ove è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna essere «disdegnosi e feri» se non secondo l'apparenza; sì come nel decimo capitolo del precedente trattato si può vedere, dove altra volta dico che l'apparenza della veritade si discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura, quivi sufficientemente vedere si può. Apresso, quando dico: E poi che tempo mi par d'aspettare, dico, sì come detto è, questo che trattare intendo. E qui non è da trapassare con piede secco ciò che si dice in tempo aspettare, imperò che potissima cagione è della mia mossa; ma da vedere è come ragionevolemente quel tempo in tutte le nostre operazioni si dee attendere, e massimamente nel parlare. Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto della Fisica, è «numero di movimento secondo prima e poi», e «numero di movimento celestiale», lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione. Ché altrimenti è disposta la terra nel principio della primavera a ricevere in sé la informazione dell'erbe e delli fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra. E così la nostra mente, in quanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che ha a seguitare la circulazione del cielo, altrimenti è disposta uno tempo e altrimenti un altro. Per che le parole, che sono quasi seme d'operazione, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, sì perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì perché dalla loro parte non sia difetto di sterilitade. E però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire: ché se 'l parladore è mal disposto, le più volte sono le sue parole dannose; e se l'uditore è mal disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone dice nello Ecclesiaste: «Tempo è da parlare, e tempo è da tacere». Il perché io sentendo in me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a parlare d'amore, parve a me che fosse d'aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d'ogni desiderio, e appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d'aspettare. Onde dice santo Iacopo apostolo nella sua Pistola: «Ecco lo agricola aspetta lo prezioso frutto della terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino». E tutte le nostre brighe, se bene venimo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo. Dico: poi che d'aspettare mi pare, diporroe, cioè lascerò stare, lo mio stilo, cioè modo, soave che d'amore parlando hoe tenuto; e dico di dicere di quello valore per lo quale uomo è gentile veracemente. E avegna che valore intender si possa per più modi, qui si prende valore quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà. E prometto di trattare di questa materia «con rima aspra e sottile». Per che sapere si conviene che rima si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: strettamente s'intende pur per quella concordanza che nell'ultima e penultima sillaba fare si suole; quando largamente s'intende, s'intende per tutto quel parlare che in numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade; e così qui in questo proemio prendere e intendere si vuole. E però dice «aspra» quanto al suono del dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice «sottile» quanto alla sentenza delle parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono. E soggiungo: riprovando 'l giudicio falso e vile: ove si promette ancora di riprovare lo giudicio della gente piena d'errore; «falso», cioè rimosso dalla veritade, e «vile», cioè da viltà d'animo affermato e fortificato. Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l'opposito, ché prima si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire alla promessione. Però è da sapere che, tutto che e all'uno e all'altro s'intenda, al trattare lo vero s'intende principalmente; a riprovare lo falso s'intende in tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire. E qui prima si promette lo trattare del vero, sì come principale intento, lo quale alli animi delli auditori porta desiderio d'udire: nel trattato prima si ripruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro dell'umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo colli avversari della veritade e poi, quelli convinti, la veritade mostroe. Ultimamente, quando dico: E cominciando, chiamo quel signore, chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che nelli occhi, cioè nelle dimostrazioni della Filosofia dimora; e bene è signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti è serva fuori d'ogni libertade. E dice: per ch'ella di se stessa s'innamora, però che essa Filosofia, che è, sì come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, se medesima riguarda quando apparisce la bellezza delli occhi suoi a lei; che altro non è a dire se non che l'anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare. E così termina ciò che proemialmente per tre membri porta lo testo del presente trattato.