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Alighieri, Dante
Convivio

IV

Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di questa materia, convienesi procedere a ragionare le parole che narrano la mia insufficienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede doppiamente, sì come doppiamente trascende l'altezza di costei per lo modo che detto è. Ché a me conviene lasciare per povertà d'intelletto molto di quello che è vero di lei, e che quasi nella mia mente raggia, la quale come corpo diafano riceve quello, non terminando: e questo dico in quella seguente particola: E certo e' mi convien lasciare in pria. Poi quando dico: e di quel che s'intende, dico che non pur a quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che io intendo sufficientemente, non sono sufficiente, però che la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona: per che è da vedere che, a rispetto della veritade, poco fia quello che dirà. E ciò resulta in grande loda di costei, se bene si guarda: nella quale principalmente s'intende. E quella orazione si può dire bene che vegna dalla fabbrica del rettorico, nella quale ciascuna parte pone mano allo principale intento. Poi quando dico: Dunque, se le mie rime avran difetto, escusomi da una colpa della quale non deggio essere colpato, veggendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di questa donna; e dico che, se difetto fia nelle mie rime, cioè nelle mie parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da biasimare la debilitade dello 'ntelletto e la cortezza del nostro parlare: lo quale per lo pensiero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno, massimamente là dove lo pensiero nasce d'amore, perché quivi l'anima profondamente più che altrove s'ingegna. Potrebbe dire alcuno: tu scusi e accusi te insiememente, ché argomento di colpa è, non purgamento, in quanto la colpa si dà allo 'ntelletto e al parlare che è mio; ché, sì come, s'elli è buono, io deggio di ciò essere lodato in quanto così è, così, s'elli è defettivo, deggio essere biasimato. A ciò si può brievemente rispondere che non m'acuso, ma scuso veramente. E però è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo dell'Etica, che l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare; ma in quelle nelle quali non ha podestà, non merita né vituperio né loda, però che l'uno e l'altro è da rendere ad altrui, avegna che le cose siano parte dell'uomo medesimo. Onde noi non dovemo vituperare l'uomo perché sia del corpo da sua nativitade laido, però che non fu in sua podestà di farsi bello; ma dovemo vituperare la mala disposizione della materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato della natura. E così non dovemo lodare l'uomo per biltate che abbia da sua nativitade nello suo corpo, ché non fu ello di ciò fattore; ma dovemo lodare l'artefice, cioè la natura umana, che tanta bellezza produce nella sua materia quando impedita da essa non è. E però disse bene lo prete allo 'mperadore, che ridea e schernia la laidezza del suo corpo: «Dio è segnore: esso fece noi, e non essinoi»; e sono queste parole del Profeta, in uno verso del Salterio scritte né più né meno come nella risposta del prete. E però veggiamo li cattivi mal nati, che pongono lo studio loro in azzimare la loro persona, e non curano di ornare la loro operazione, che dee essere tutta con onestade: che non è altro a fare che ornare l'opera d'altrui ed abandonare la propia. Tornando adunque al proposito, dico che nostro intelletto, per difetto della virtù dalla quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente. E di ciò non è l'uomo da biasimare, ché non esso, dico, fue di questo difetto fattore, anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio, che volse in questa vita privare noi da questa luce; che, perché elli lo si facesse, presuntuoso sarebbe a ragionare. Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia meno allo 'ntelletto, se io non potea intendere, non sono da biasimare. Ancora: è posto fine al nostro ingegno in ciascuna sua operazione, non da noi ma dall'universale natura; e però è da sapere che più ampî sono li termini dello 'ngegno a pensare che a parlare, e più ampî a parlare che ad accennare. Dunque, se 'l pensiero nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non vène ma eziandio quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare, però che non semo di ciò fattori. E però manifesto me veramente scusare quando dico: di ciò si biasmi il debole intelletto e 'l parlar nostro, che non ha valore di ritrar tutto ciò che dice Amore: ché assai si dee chiaramente vedere la buona volontade, alla quale avere si dee rispetto nelli meriti umani. E così omai s'intenda la prima parte principale di questa canzone che corre mo per mano.